Dopo aver letto questo articolo, ma soprattutto dopo aver partecipato a #TTT06, penso sia sempre più il caso che il giornalismo abbandoni il pregiudizio ideologico che gli impedisce di accettare i contenuti prodotti dal basso, dalla community, dai lettori stessi. Ma andiamo con ordine.
#TTT06 è la sesta puntata di un evento che da quasi un anno riunisce sistematicamente 20 persone in diverse città italiane (ora sette) e nel quale si discute della condivisione di contenuti su Twitter – ma più in generale sui social media – nonché del futuro delle tecnologie della comunicazione. Impossibile che il giornalismo non sia parte di questo ragionamento. Se all’inizio giornali e tv italiane mostravano timore nei confronti dei media partecipativi, ora viviamo una fase opposta, nella quale ogni testata subisce – a gradi più o meno alti – una vera e propria ubriacatura social. Siamo all’estremo opposto, in cui piattaforme come YouReporter sono talmente utilizzate dalle televisioni da lasciare senza lavoro diversi operatori professionisti. Idem per i giornali, che se prima si limitavano a “rapinare” fotografie di chicchessia da Facebook (in barba alla legge sulla privacy), ora possono rimpolpare articoli e servizi anche con le famigerate dichiarazioni su Twitter. Tant’è che diversi politici utilizzano anche questi mezzi per comunicare con la stampa.
Nessun giornale si è posto il problema di cercare di capire i social network e il giornalismo partecipativo ancor prima di sfruttarne i contenuti. Ora qualche testata sta rimediando («La Stampa», ad esempio, si è dotata di un social media manager, Anna Masera). Il risultato è che spesso, anziché fare le classiche interviste “tra la gente”, il giornalista passa una ventina di minuti tra Twitter e Facebook raccattando frasi qua e là per montare il cosiddetto “pastone”. Il problema è anche che i giornali vedono spesso i social media come concorrenti nella distribuzione di notizie, più veloci persino delle agenzie. Le testate che fanno a gara per dare un’informazione prima di Twitter (ad esempio) finiscono regolarmente per fare delle figure meschine, perché la velocità del mezzo è talmente elevata da non consentire una verifica accurata delle fonti, caratteristica fondamentale del giornalismo.
Il citizen journalism (chiamatelo anche “giornalismo partecipativo”) è un fenomeno che si inserisce in questo ragionamento, poiché si basa sulla diffusione di contenuti prodotti da chi giornalista non è, in maniera gratuita, veloce e capillare. Quello che manca è la professionalità. Chi si adopera per caricare video su YouReporter o articoli su AgoraVox lo fa a tempo perso e per diletto. Il citizen journalism è una cascata continua di materiale gratuito, ma che va verificato. Purtroppo si assiste spesso a un utilizzo cieco e rozzo delle informazioni di questo genere, mandate in stampa o in onda per riempire velocemente spazi con servizi già confezionati: un colossale risparmio di tempo e soldi. Questo è un durissimo colpo al precariato giornalistico da parte del Giornalismo stesso (sì, quello con la “G” maiuscola). Sebbene spesso i precari guardino con rabbia e timore alle piattaforme partecipative; e in generale a coloro i quali si improvvisano giornalisti “rubando” il lavoro ai professionisti. Non è colpa loro, ma di chi accetta contenuti grossolani purché gratuiti.
Il citizen journalism non è un nemico del giornalismo, ma non è nemmeno giornalismo. Il nostro mestiere è quello di considerare ogni fonte senza pregiudizi (YouReporter, Twitter, Facebook, eccetera), ma trattarla, appunto, come fonte, quindi verificandola. Con professionalità. La questione sta proprio nell’approccio quantitativo (riempire le pagine di scritte) verso il quale sembrano aver virato quasi tutte le testate, abbandonando il più sano – ma meno redditizio, forse – approccio qualitativo. Il giornalismo può integrarsi con i social media in sinergia, il rapporto tra i due “mondi”, se gestito in termini di subordinazione (dell’uno o dell’altro), è invece dannoso.
Seguiranno altri post sul tema.