Nel post precedente ho introdotto il discorso sul citizen journalism, o giornalismo partecipativo, che sta prendendo piede, grazie al web, da un paio d’anni a questa parte. A questo argomento si lega la domanda: cosa succede se tutti hanno la possibilità di esprimersi e condividere contenuti?
Anziché utilizzare il canale di comunicazione – web amplificato dai social media – per condividere un pensiero o un contenuto che si ha piacere di diffondere, con un procedimento bottom-up, e cioè ho l’idea e la diffondo, accade invece l’opposto, a giudicare dalla qualità dei contenuti che viaggiano in rete. Devo condividere, quindi devo farmi venire un’idea. Su Twitter, ad esempio, spopola il battutismo: in cerca di visibilità, molti utenti producono un grande quantitativo di tweet sforzandosi di essere spiritosi e facendo dell’ironia sul tema del momento. Zero contenuti, ma ossessiva ricerca della battuta a effetto cavalcando i trending topic, con risultati spesso pietosi ma a volte eccellenti, grazie alla legge dei grandi numeri. Uno schema top-down che culminava già con YouTube e il fiorire del video-blogging, dove moltissimi utenti si rispondevano a vicenda su temi già triti e ritriti senza portare nessun tipo di contenuto ma inondando di opinioni un discorso relativo a un singolo fatto. Una ridondanza fastidiosissima. Per non parlare dei casi di notorietà ottenuta con video privi di senso.
L’apertura totale alla diffusione di contenuti intasa il canale web di informazioni inutili, trovare qualcosa di sensato diventa difficile. Lo stesso discorso si applica al citizen journalism, che ha potenzialmente le stesse caratteristiche dei fenomeni appena descritti e soprattutto nasce e si sviluppa nello stesso ambiente.
Se tutti parlano, nessuno parla. È il caso di imporre una rigida selezione di ciò che passa in rete, dichiarando i requisiti minimi per passare di livello ed entrare nel gotha delle informazioni selezionate e utilizzabili. Il giornalismo si pone quindi su un piano superiore rispetto a quello del popolo della rete e avrà fortuna in base alla forza dei criteri qualitativi con cui selezionerà i contenuti. Sembrerà arrogante, ma è l’unico modo per venirne a capo.
L’apertura totale è un bene ma anche un male, perché crea nell’utente un desiderio di visibilità immediata che spinge a produrre un alto numero di contenuti di ogni tipo (e scarsissima qualità media, nessuno è tuttologo) per guadagnarsi una condivisione. È facile immaginare non sia poi così strano, pensando alla vita quotidiana. Il lavoro desk richiesto a un redattore è sempre più elevato, perché se da un lato le informazioni che arrivano al computer di un giornalista sono potenzialmente illimitate, esse sono per la maggior parte approssimative e fuorvianti, quindi il lavoro di selezione e verifica è maggiore rispetto a notizie “di prima mano”.
Produrre informazioni non verificate non è giornalismo, verificare le informazioni è giornalismo. Chi può verificare correttamente le informazioni è il professionista, che conosce i meccanismi per farlo correttamente (che poi molti non lo facciano è un altro discorso). Se il citizen journalism è l’apertura totale alla pubblicazione di contenuti, esso non è giornalismo, ma è “semplice” condivisione di cose. Se invece è gestito da una redazione che verifica ciò che viene pubblicato, allora è giornalismo duro e puro, perché chiamarlo con un altro nome? Per questo credo che il citizen journalism in realtà non esista, ma sia soltanto un nome per definire il modo in cui vengono raccolte le informazioni.
Esso è una fonte, molto interessante e utile, ma non un genere di informazione. Questo apparente “declassamento” va in realtà a valorizzare lo strumento, che se confrontato con il giornalismo “vero” perde di affidabilità, se utilizzato in sinergia, invece, lo potenzia. Chiamiamolo pure citizen journalism, o giornalismo partecipativo, per comodità, ma esso resta comunque, a mio modesto parere, uno strumento non autonomo dell’informazione. Il che lo riporta, peraltro, al concetto originale, diviso da Steve Outing del Poynter Institute for Media Studies in 11 diversi gradi di partecipazione (non di giornalismo).
Interessante articolo, tuttavia viziato da un preconcetto: l’incapacità dei “non giornalisti” di professione di controllare le fonti.
Se a questo aggiungiamo che il “giornalismo” (mi si scuseranno l’abuso di virgolette, ma sono utili) tradizionale sta sempre più perdendo, come per altro sottolineato dall’autore, questa capacità di verifica delle notizie (tra i più noti la falsa liberazione di Rossella Urru di alcuni mesi fa). Allora forse o decretiamo il giornalismo morto in toto, oppure ci affacciamo a un nuovo giornalismo, non più segregato in una redazione, ma aperto anche a computer di singoli utenti, saranno poi i lettori a decretare il successo/insuccesso di una testata/blog di informazione.
Per finire vorrei ancora ricordare che negli ultimi anni i giornalisti di professione nelle redazioni sono sempre di meno, se vediamo i numeri dei giornalisti professionisti contrapposto ai pubblicisti (e ancora contrapposto anche a quei giornalisti senza tesserino), scopriremmo che di professionisti soltanto un pugno è attivo, mentre la maggior parte del mondo giornalistico è in mano a NON professionisti (che nella maggior parte dei casi non campa di quel lavoro).
Caro Federico F. (chissà chi sarai mai… 😛 ), hai ragione, ma il punto è che non distinguo tra giornalista pubblicista e giornalista professionista, bensì tra chi fa del giornalismo la propria professione e chi no. E non necessariamente ci si mantiene (anche perché è sempre più difficile), ma almeno non lo considera un hobby. Con questa distinzione metto pubblicisti e professionisti sullo stesso piano, forse avrei dovuto specificarlo…
Detto questo, è vero che il giornalismo delle testate tradizionali è in crisi, ma non mi sento di dire che stia morendo, anzi, le forme partecipative e i social network possono essere un’ottimo aiuto, purché trattati come fonti e non come concorrenti o riempitivo di articoli e servizi. Credo che la sinergia tra “giornalismo” e “non giornalismo” sia indispensabile, ed è questo il “nuovo giornalismo” che avanza, ma è prima necessario liberarsi dalla spocchia. Quella del “arriva da Facebook, quindi chi se ne frega” o del “sentiamo il popolo della rete” (come se fosse uno strano oggetto di studio). Giusto che perdano lettori, prima o poi falliranno se non sapranno rinnovarsi.
Il guaio è che molte testate, per correre dietro a Twitter o simili, si dimenticano di verificare le notizie prendendo cantonate pazzesche.
Per tornare al concetto iniziale: i giornalisti sanno controllare le fonti, ma spesso non lo fanno perché pensano a dare subito la notizia per non bucarsi lo scoop (al netto della mala fede). Chi lo fa pur non essendo un giornalista svolge comunque un lavoro giornalistico, sia esso per un giornale, un blog o un tema in classe.
Cosa ne dici?
Continuo a pensare che non per forza il citizen journalism non sia giornalismo. Dipende tutto dal modo in cui si sviluppa il lavoro.
In altre parole è la produzione finale quello che conta, non il canale.
Ciononostante constato anch’io l’idea che la percentuale tra buon giornalismo e non-giornalismo (all’interno del citizen journalism) sia purtroppo a favore del secondo, ma non per questo bisogna “degradare” il fenomeno nel suo complesso (cosa che non viene fatta per il giornalismo tradizionale).
Sono dell’idea che i lettori (soprattutto quelli più evoluti) siano in grado di comprendere la differenza tra un giornalista e un hobbista, prediligendo nel lungo periodo i primi e favorendo la scomparsa dei secondi (anche se non spariranno mai del tutto).
Potremmo aprire il discorso degli hobbisti che tolgono lavoro ai professionisti (non per colpa loro, ma per colpa di chi li pubblica al posto degli altri, naturalmente gratis) ma non finiremmo più. Però credo che quando il citizen journalism produce del buon giornalismo, lo faccia sotto la supervisione di qualcuno che, banalmente, “approva” (penso ad esempio ad AgoraVox). Ma a quel punto diventa giornalismo a tutti gli effetti.
Comunque ritengo la partecipazione tra lettori e autori una risorsa imprescindibile per rinnovarsi e continuare a produrre contenuti di qualità. Il pubblico è sovrano, almeno sul web (peccato che ancora non ci si mangi…).
Penso sia anche un problema di obiettivi. Con tutti i suoi vizi, l’informazione italiana non è un buon esempio, e lascia passare l’idea che chiunque possa diventare un giornalista. Tuttavia il percorso interiore (e non prendetelo come un parolone vuoto) che bisogna fare per considerarsi tali a tutti gli effetti è complesso. Comporta una forte tendenza all’autocritica, una forza d’animo nel resistere alle pressioni dei gruppi di interesse, una decisa onestà intellettuale e un distacco – che non deve necessariamente scadere nel cinismo – dal trattamento dei fatti in chiave drammatica. Diventare un giornalista è ben più che raccontare un fatto, è una disposizione d’animo io credo. E il numero di persone cui lo si racconta non è da considerare una fonte di riconoscimento o legittimazione, ma solo e soltanto gente cui si vuol dare un servizio vero ed efficiente. Questo stato d’animo è figlio di uno studio intenso e di un’esperienza continua e costante, non sporadica. Il citizen journalism va invece nella direzione opposta e perde di vista gli obiettivi di una professione tanto bistrattata quanto eccezionale.
Sono d’accordo. E penso che la crisi di credibilità che subisce questo mestiere ricada sulle spalle di chi lo fa davvero con onestà. Lo stato d’animo di cui parli tu forse è un po’ troppo labile e credo non si applichi solo al giornalismo, ma continuare a concepirlo come un servizio credo sia indispensabile.
Il citizen journalism va benissimo, purché il giornalista lo tratti come fonte (dandovi autorevolezza ma verificando le notizie) e il “citizen journalist” non pensi di diventare giornalista scrivendo articoli a casaccio qua e là o facendo foto delle buche che si aprono sul marciapiede per testimoniare la noncuranza del Comune…
Spero che si smetta di considerare “giornalismo” e “citizen journalism” come avversari, e che si cominci a considerarli due cose diverse ma vicendevolmente utili. Sarò ripetitivo, ma continuo a pestare sulla sinergia. Secondo me la strada è quella.
Qui credo ci sia un errore di fondo unendo il citizen journalism (scrivere notizie su fatti che si sono vissuti) a fenomeni di pledges e proteste pubbliche.
Il citizen journalism è esattamente uguale a quello tradizionale, si basa sulle 5W, la differenza tra le due forme è basata sul canale utilizzato: un media istituzionalizzato e riconosciuto a livello sociale per il primo (tv, carta stampata, blog di testate) per il giornalismo mainstream; media personali (blog, vlog o community online) per il giornalismo partecipativo.
Purtroppo però nel tempo il giornalismo partecipativo è stato limitato da fattori economici e politici (come molte altre realtà in Italia, entrare in una testata riconosciuta è pressoché impossibile senza un calcio in culo), per questo motivo si è generata una spinta verso queste forme di giornalismo partecipativo.
Voglio infine ricordare come il giornalismo tradizionale sia influenzato dalla cosiddetta agenda setting (quasi sempre controllata dalla politica) e su questo aspetto il citizen journalism è fondamentale: non avendo grandi investitori o editori, allora non sono “costretti” a una selezione delle notizie, offrendo notizie che solitamente risultano più varie (non per forza avariate) e libere.
NdC Chiedo profondamente scusa per le continue ripetizioni del termine “giornalismo”, ma non trovo sinonimi adatti.
Il fatto che non si trovino sinonimi per la parola “giornalismo” è a dir poco poetico. 🙂
Non so perché ma non mi fa replicare al tuo commento precedente, lo farò qui.
Penso che anche il citizen journalism risenta di una consistente influenza dell’agenda setting, magari si potrebbe parlare di una contro-agenda, per quanto riesca comunque a mantenersi più libero da questi vincoli, come dici tu.
A mio avviso, però, la differenza non sta solo nel canale utilizzato, ma anche nella maggiore “libertà” di cui gode l’articolista (il citizen journalist) nel raccontare un fatto. Non c’è, insomma, una redazione che filtra (non necessariamente in senso cattivo) le notizie pubblicate. Poi che si possano produrre lo stesso ottimi contenuti è indubbio, ma se c’è qualcuno che distingue quello che è verificato da quello che non lo è mi sembra faccia un lavoro giornalistico, e quindi è giornalismo.
Il citizen journalism (con tutti i suoi derivati) è comunque importante per diffondere “lo stesso” certe notizie che altrimenti non verrebbero mai pubblicate.