Ci sono delle considerazioni da fare sul giornalismo in evoluzione grazie a Twitter. E non dico “social network” ma dico proprio Twitter perché le caratteristiche del mezzo ben si prestano a utilizzi prettamente giornalistici. La velocità di diffusione e la brevità richiesta per ogni tweet fanno pensare ai lanci di agenzia. Facile che si sviluppino fenomeni di diffusione delle informazioni che in certi casi superano i giornali (il celebre #terremoto in Emilia). Ma proprio perché questo mezzo è così malleabile e incline a essere utilizzato “giornalisticamente”, è bene che i professionisti dell’informazione imparino a utilizzarlo senza demonizzarlo né vederlo come un concorrente.
Barbara Sgarzi, giornalista free lance che collabora con “Grazia” e “Donna Moderna” (e altre testate), ha pubblicato l’eBook Twitter, news e comunicazione (40k, 2012) nel quale, a partire da questo post prova a stilare un decalogo (anzi, qualcosa in più) delle cose da sapere su Twitter per i giornalisti che, volenti o nolenti, inizino a utilizzarlo. Non è un libretto dogmatico bensì un preciso elenco di risposte alle domande più frequenti poste all’autrice durante i suoi corsi dedicati ai new media nei giornali. Non starò a ripetere i punti messi in luce dal testo (vi consiglio di leggerlo e tenerlo come vademecum, è breve e costa poco) ma vorrei tirarne fuori quello che in verità cercavo di formulare da mesi: il giornalista può e deve utilizzare Twitter come fonte. Finché i giornali cercheranno di concorrere con mezzi di questo tipo, non potranno che fallire, perché la velocità è tale da far venir meno il processo fondamentale che attiene al giornalismo: la verifica delle fonti. La diffusione cieca di informazioni senza fondamento rende i giornali uguali a qualsiasi altro utente, quindi sperduti nel mare della rete. Anzi, delegittimati a ogni errore, a differenza di un normale utente.
Proprio perché il web è una giungla ed esistono servizi come Twitter in grado di “coprire” grandi eventi con velocità e dovizia di particolari, è bene avere, nei giornali, figure specializzate nel trattarli con attenzione evitando di prendere cantonate pazzesche dettate dalla sciatteria (#questapersonacarlo docet). Io e Cristina Cucciniello (“l’Espresso”, “la Repubblica”) abbiamo lavorato insieme a un esempio di quello che in gergo di chiama “debunking” e che consiste, in parole povere, nell’andare a vedere se l’argomento di cui si parla in un dato momento ha davvero determinate caratteristiche oppure no. Ci siamo occupati delle torture inflitte ai bambini cinesi per prepararli alle Olimpiadi; mentre a inizio anno mi sono occupato delle foto di presunti stupri dei soldati americani nella prigione di Abu Ghraib: stupri veri, purtroppo, foto false.
È emersa la necessità di avere dei giornalisti capaci di maneggiare il web che possano, ad esempio, trarre da Twitter una miriade di informazioni verificate. Con una buona attività di debunking si sarebbe potuta costruire una diretta Twitter degli effetti del terremoto in una sorta di crowdsourcing istantaneo. Il giornalista diventerebbe così una figura molto più importante rispetto al passato, perché sarebbe in grado di trovare il bandolo della matassa nel caos della rete. Dominerebbe il mezzo anziché rincorrerlo. Questo richiederebbe impegno e una professionalità riconosciuta, perché – tanto per tornare agli esempi di prima – se io e Cristina, per la Cina, abbiamo impiegato tre giorni di lavoro, e io da solo per Abu Ghraib ne ho spesi quattro, allora è il caso di creare una figura dedicata nei giornali che si occupi di debunking. Questa operazione ha un costo ma, a lungo andare, potrebbe addirittura salvare i giornali in presunta crisi a causa dei social media. Rappresenterebbe un’evoluzione del giornalismo per stare al passo con i tempi, dando dignità professionale al cosiddetto “smanettone”, figura mitologica non meglio identificata. Prima di esercitarsi con il debunking (non a caso ho chiamato la sezione dedicata “Esercizi di giornalismo su Google”) è opportuno alfabetizzarsi e imparare l’utilizzo di servizi in crescita come Twitter, alcuni l’hanno capito (ad esempio, “La Stampa” ha imposto a quasi tutti i suoi redattori l’utilizzo dei social network, Twitter soprattutto) altri continuano a utilizzare il web come riempitivo e ad appellarsi al “popolo della rete”, che nessuno ha ancora capito cosa sia.
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