La grande ubriacatura social che stiamo vivendo in Italia, da circa un anno e mezzo a questa parte, ha spinto diverse aziende a buttarsi su canali come Facebook e Twitter (per citare i più popolari) senza un accenno di strategia. La motivazione è una generale sottovalutazione del mezzo, analizzato – e considerato – secondo il paradigma che ha fatto conoscere Facebook in Italia: il puro cazzeggio.

Come ben sappiamo, le cose non stanno affatto così. A parte Facebook, social network che mostra i primi segni di malattia senile (e Zuckerberg sta correndo ai ripari dopo il tracollo in borsa), ogni social network ha diversi limiti e potenzialità che possono essere sfruttati a seconda dell’obiettivo che ci si pone. L’unica cosa che accomuna tutti è il limite aziendale, e cioè quei meccanismi “borbonici” di macchinosità e burocratismo che mal si sposano con l’alta velocità di condivisione e le interazioni richieste dai canali social.

Non si può passare attraverso l’approvazione di tre diversi uffici (o più, è un numero a caso) prima di pubblicare un tweet. Quando accade, è sintomo di una cronica mancanza di strategia, poiché grazie alla definizione di precise linee guida (che comunque devono lasciare un benché minimo margine di interpretazione) l’approvazione di ogni tweet non è più necessaria. La mancanza di strategia è a sua volta sintomo di mancanza di idee, che spesso si racchiudono in una sola questione mai evasa: “A che serve stare sui social?”.

Starci tanto per starci è controproducente: è frutto del vecchio paradigma dei primi anni di Facebook, nei quali si diventava “fan” di una pagina indipendentemente dal fatto che vi si pubblicassero cose oppure no. Oggi l’utilizzo dei social è cambiato, chi si iscrive a una pagina o segue un account Twitter o Pinterest lo fa perché cerca servizi. Questo è un utilizzo attivo dei social ed è anche l’unico che influenza l’acquisto.

Oggi chi segue un account social cerca servizi.

Il consumatore attivo è alla costante ricerca di servizi migliori e più adeguati alle proprie esigenze, quindi ha senso interagire con lui e proporre contenuti. Ma non è uno stupido, se un’azienda sbaglia non vende perché questo tipo di consumatore se lo ricorda. Come si ricorda delle buone pratiche di un’azienda ed è disposto a perdonare un errore se ne intuisce la buona fede. Il consumatore attivo è quindi più difficile da fidelizzare ma è più stabile, a meno di non combinare guai clamorosi.

Al momento la maggioranza dei consumatori non ha queste caratteristiche, prendiamo ad esempio l’universo dei bimbiminkia, categoria non ancora identificata ma sempre più presente. Essi sono molto uniti e poco critici nei confronti del prodotto che scelgono di acquistare, vi appartengono e basta (pensiamo ai fan di Justin Bieber o dei cantanti saltati fuori da “Amici”), senza bisogno di particolari promozioni al di là del branding. E se non ci credete date un’occhiata ai profili Twitter dei vari Valerio Scanu, Alessandra Amoroso o altri e fate caso al non contenuto dei loro tweet, ma soprattutto alla quantità di retweet che riceve un “Buongiorno! ^_^”. Il discorso meriterebbe qualche decina di post.

Prima di aprire un profilo su tutti i social, l’azienda si deve porre il problema di quali contenuti offrire, altrimenti – a meno di non puntare sulla clientela bimbiminkia – la presenza vuota e inconsistente andrà a provocare un danno d’immagine nel lungo termine, proprio a causa di quel pubblico critico e attivo che si renderà conto dell’inefficienza strategica del brand.

Questo è difficile da capire poiché spesso – in genere nelle grandi aziende – l’attività di comunicazione esterna è autoreferenziale, basata sul paradigma della pubblicità pura, pratica che con l’ampia quantità di interazioni critiche sul web è già fallita. E spesso, proprio a causa del paradigma-Facebook-cazzeggio, non si investe su un team che si occupi dei social, ma se ne affida la gestione a chi fa altri lavori e quindi pubblica tweet o post nei ritagli di tempo, figuriamoci quando potrebbe pianificare una strategia! Essa poi sarebbe persino inutile, perché spesso si guarda al numero di follower o di like senza badare alle reazioni degli utenti, in questo modo la non strategia social diventa un mero gingillo da esporre a una cena tra amministratori delegati, naturalmente omettendo il fatto che di quei 20mila like, circa il 90% sono stati fatti da dipendenti su richiesta dei loro capi ufficio.

Se la centralità è dell’azienda piuttosto che del cliente, allora si baderà più alla mera presenza sui social piuttosto che alla condivisione di contenuti.

La centralità è ancora dell’azienda anziché del cliente, ne consegue un interesse alla presenza anziché ai contenuti. “L’importante è esserci” recita un dannoso adagio molto diffuso in certe aziende. Siamo ancora indietro, soprattutto nei casi in cui l’organigramma aziendale è più complicato di un circuito integrato. Chi ordina “il Twitter” (sic!) non sa nemmeno come funzioni, perché gli interessa solo avere una vetrina in più, e magari pagherà migliaia di euro a un’azienda di consulenza che gli compra i follower, tanto il boss nemmeno se ne accorge. Autoreferenzialità pura, ma chi comprerà i prodotti di un marchio che pensa più a se stesso che ai propri clienti e che, soprattutto, non ha nemmeno l’intelligenza necessaria per capire cosa diavolo stia facendo di se stesso sul web?

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