Non amo fare le pulci ai colleghi, né mi va genio l’idea di schierarmi con la maggioranza del web che ha accolto con freddezza l’esordio dell’edizione italiana dell’Huffington Post. Non tanto per il coro di lamentele, quanto perché si tratta della maggioranza (sono un terribile anticonformista, a volte ciecamente aprioristico). Tralasciando la polemica sui contributi gratuiti dei blogger (sembra generino comunque un traffico minoritario sul sito), penso che questa volta l’HuffPo si sia lasciato prendere la mano dallo scoop.
La storia è questa: il figlio di Gianni Alemanno, tale Manfredi, pubblica sul proprio profilo Facebook le foto delle sue vacanze in Grecia che lo raffigurano, in compagnia dei suoi amici, mentre si diverte a fare il saluto romano in diverse location. L’Huffington le prende e le pubblica, offuscando i visi degli amici di Manfredi, tranne il suo. Il problema è che lui ha 17 anni, quindi è minorenne e secondo la Carta di Treviso non è etico renderlo riconoscibile a seguito di atti potenzialmente lesivi della sua immagine.
Naturalmente si può obiettare che per “diritto di cronaca” il giornale abbia deciso di pubblicare una notizia che testimonia un reato, quello di apologia del Fascismo, commesso dal figlio del sindaco di Roma. O che magari si tratti di un personaggio pubblico, il quale però resta minorenne. Senza addentrarci in arzigogoli giuridici, che non sono nostra materia, vien da chiedersi dove stia la notizia e quale importanza rivesta il fatto, se così si può definire, per il pubblico interesse. Inoltre il giornale diretto da Lucia Annunziata è andato a pescare delle immagini dal profilo Facebook del ragazzino (che poi le ha rimosse) per dare in pasto ai lettori un articolo potenzialmente virale e dal tono sensazionalistico, che nulla aggiunge a questioni politiche di interesse pubblico. Si tratta di scelte giornalistiche che non si discutono (il direttore ritiene di fare ciò che meglio crede) ma che puzzano terribilmente di vecchio. Il giornale è schiavo della velocità e del traffico, poiché una notizia che non è una notizia diventa un fatto di pubblica discussione nel giro di pochissimo, generando sicuramente un traffico molto alto anche solo per le polemiche che riesce a sollevare. Inoltre si riscontra di nuovo l’utilizzo dei social network per recuperare materiale gratuito da utilizzare come riempitivo. Da un giornale “nuovo” ci si aspettava appunto qualcosa di nuovo.
Naturalmente gli incidenti capitano e questo non basta per affossare un giornale, al quale auguriamo di dimostrare – si spera presto – il proprio valore d’innovazione. Cose del genere sono però sintomo di una tendenza generale del giornalismo che pare essere soggiogato dai numeri, follower o clic. Per aumentarli si tende a filtrare meno le notizie (insomma si pubblica un po’ tutto, tanto c’è spazio), puntando sulla brevità e sulla velocità di diffusione, aggiungendo un buon lavoro di SEO in grado di stimolare la condivisione e generare traffico. In una parola: sensazionalismo. Ma siamo sicuri che i lettori vogliano davvero una cosa del genere? Sembrerebbe di no, almeno, non tutti.
Spesso la corsa al sensazionalismo è una strategia per generare traffico, ma cosa resta dell’informazione?
Antonio Tombolini è il fondatore della Simplicissimus Book Farm, una delle prime ebook company in Italia e nel mondo. Poche settimane fa ha dato vita allo Slow Reading Manifesto, il quale si rivolge ai lettori e agli editori di ebook, ma, a mio avviso, può essere esteso anche ai giornali perché Tombolini punta il dito contro diversi prodotti digitali, tra cui la famigerata snack information, che spingerebbero verso una lettura veloce e poco approfondita. Qui mi ponevo il problema della velocità cercando di comprenderne limiti e potenzialità. Un problema tuttora irrisolto, almeno per me, perché resta da capire in quale maniera il giornalismo debba cambiare (perché è lapalissiano che lo debba fare) per sopravvivere a questo “nuovo” modo di comunicare e diffondere contenuti.
L’alta velocità di diffusione richiede un’alta velocità di produzione? Probabilmente sì. E nell’apparente penuria di cose da dire si finisce con il trasformare in notizia ciò che normalmente sarebbe – nei casi migliori – un semplice dettaglio all’interno di un articolo di approfondimento. Quello che non bisogna dimenticare, scritto nel primo punto del manifesto, è che l’affermazione di prodotti digitali “veloci” non solo è inarrestabile, ma è sana. Non è vero che i contenuti diffusi in maniera istantanea debbano per forza essere grossolani, questa è una comoda e dannosa semplificazione che trascina al ribasso la qualità generale dell’informazione, anzi, paradossalmente devono essere ancora più precisi.
Purtroppo per continuare a produrre contenuti ragionati c’è bisogno di più persone, più investimenti, più controlli (mi piacerebbe riaprire l’annosa questione del debunking ma non vorrei essere ripetitivo). La prima cosa da fare è, se non riusciamo a convincere i giornali, convincere i lettori, e ricordare loro che dopo aver letto una breve di 10 righe su un argomento è davvero impossibile – oltre che ipocrita – ritenere di conoscerlo. Si può avere un’idea di ciò che succede, ma da lì a essere informati ne passa. Se il lettore vuole informarsi, allora deve riscoprire la possibilità di leggere lentamente.
Il lettore che consuma notizie brevi in poco tempo rischia di ritenersi informato quando invece ha appena una vaga idea degli argomenti trattati dai giornali.
Lo Slow Reading Manifesto riporta l’attenzione sulla necessità di preservare la lettura attenta, che andrebbe – a mio avviso – a salvaguardare anche la scrittura verificata e ragionata, togliendola dalla subordinazione alla velocità dei canali. Non dobbiamo per forza leggere solo pillole o breaking news se sappiamo di aver bisogno di approfondimenti. Un libro è tale anche in digitale, a patto che non si esaurisca in due paginette scarse lette in cinque minuti (quello è un articolo, semmai, perché spacciarlo per ebook?). Il discorso si presta benissimo ai prodotti letterari, ma come conciliarlo con il giornalismo? Stento a credere che non ci siano abbastanza notizie per riempire un giornale tutti i giorni, anche sul web, per questo non mi sembra un’eresia declinare l’idea di Tombolini nei giornali, una sorta di Slow Writing Manifesto che pone al centro due argomenti tanto banali quanto sottovalutati: la verifica delle fonti, la valutazione del pubblico interesse di un articolo (che sta poi alla base del concetto di notizia). Visto che i giornali sembrano aver dimenticato che lo slow writing è ciò che sta alla base del giornalismo – per limiti spesso economici – sarebbe auspicabile prevedere una sorta di “isola felice” all’interno di una testata, nella quale trovare contenuti prodotti all’insegna della scrittura ragionata e lenta. Qualcosina c’è già (specialmente sotto forma di blog), ma c’è ancora tanta strada da fare. Soprattutto per i lettori.
In attesa di capire in che maniera i giornali debbano cambiare per salvarsi, lo slow writing può essere preservato anche così.
Ecco i punti del mio personale Slow Writing Manifesto* che riflette le proposte di Tombolini:
- Non rincorrerò Twitter, sarà sempre più veloce di me perché non deve verificare le notizie e nessuno pretende che lo faccia.
- Una discussione non è una notizia, a meno che non produca azioni concrete oltre al battibecco in stile Salvo Sottile/Selvaggia Lucarelli. Non ne farò articoli istantanei.
- Mi dimenticherò del concetto di scoop finché non avrò verificato una notizia come so/devo fare.
- Nel momento in cui verificherò le mie fonti mi dimenticherò dell’esistenza di internet, o almeno dei social network.
- Non utilizzerò materiale preso dai social come riempitivo.
- Il fatto che un articolo sia virale non ne fa necessariamente un buon articolo.
- Il web non è una fonte, è una massa di fonti. Non dirò che una notizia arriva “dal web” ma cercherò sempre di recuperare e citare la fonte.
* Trattatelo come se fosse Open Source. Se vi interessa modificatelo, stravolgetelo, integratelo, cancellatelo, schifatelo, criticatelo, duplicatelo. Eccetera.