Come introducevo tempo fa, i nuovi media, o meglio, il nuovo utilizzo dei media, sta spingendo verso la centralità degli user generated content. Una tendenza che contagia i giornali, i quali sempre più si affidano al crowdsourcing per raccogliere e filtrare le notizie, basti pensare a un grande quotidiano come il Corriere della Sera e alla sua recente partnership con Factchecking.it. Gli utenti stessi verificano le notizie, e scelgono – indirettamente – quello che va bene e quello che non va bene.
Poche persone, però, hanno tempo e voglia di raccogliere informazioni ogni giorno per la propria rassegna stampa personale, questo spingerà l’utente a cercare esclusivamente ciò di cui ha bisogno e al quale è interessato. Social network come Twitter offrono comodamente questa possibilità e, se integrati con un utilizzo accurato dei motori di ricerca, possono permettere a una persona mediamente alfabetizzata dal punto di vista digitale di trasformare la rete in un immenso ed efficiente distributore di servizi.
Bene. Anzi male. Esempio: acquistiamo La Stampa o la Repubblica perché ci interessa tutto il giornale o solo alcuni articoli che sappiamo di trovare lì? Penso di poter dire che la maggioranza dei lettori si allinei sulla seconda possibilità. Acquistiamo un quotidiano per leggerne quattro o cinque articoli e troviamo anche altri articoli che scopriamo essere interessanti. È così che ci viene imposta la possibilità di allargare i nostri orizzonti, operazione sana che altrimenti avremmo difficilmente tempo e voglia di fare. Se invece avessimo noi la possibilità di creare il nostro giornale personale, finiremmo con l’aggregare fonti e notizie secondo i nostri gusti restringendo gradualmente la dieta informativa. Non per cattiveria o faziosità, ma per mancanza di consapevolezza: se non conosco l’esistenza di qualcosa, come faccio a interessarmene?
Il rischio di utilizzare esclusivamente i social media (o altri servizi che spingono verso la disintermediazione) è quello di creare liste e gruppi ristretti nei quali viaggiano sempre le stesse idee. Proviamo a dare un’occhiata alla qualità dei nostri amici Facebook o dei nostri following su Twitter, troveremo sempre una sola linea comune che li contraddistingue: la nostra personalità.
Informarsi solo con i social media rischia di farci confrontare sempre con le stesse idee.
Fatta questa considerazione, che potrà apparire ovvia, è il caso di ricordarsene nel momento in cui ci si accorge di informarsi esclusivamente attraverso la app Twitter del telefono, ad esempio. I giornali, da sempre, sono il mezzo per superare l’effetto collaterale della disintermediazione, che è poi alla base del concetto di comunità. Spetta a quotidiani e periodici lavorare sulla pluralizzazione dei contenuti, che non vuol dire pubblicare tutto e il contrario di tutto (l’ho visto fare e non si capisce niente) ma far capire al lettore che esistono anche altri punti di vista sulle cose, altri luoghi, altre persone e altri stili di vita.
La disintermediazione è positiva per l’utente consapevole e alfabetizzato, in grado di dominare il mezzo internet. Ma esso è la minoranza. L’utente poco alfabetizzato diventa assuefatto ai suoi leader d’opinione – secondo una datata teoria sociologica – e si appiattisce su una realtà filtrata e comoda. Questo è un pericolo, perché la maggioranza poco reattiva ha bisogno di continui stimoli, e non si può chiedere che ognuno si invogli da sé a cercare informazioni quando non l’ha mai fatto. Se lo scettro dell’informazione passa di mano, è utile solo se si è capaci di utilizzarlo, altrimenti diventa limitante. Credo che più andremo verso la disintermediazione, più avverrà una spaccatura tra l’utente consapevole e quello che lo è di meno.
Qui sta un nodo importante che riguarda l’informazione che, se vuole preservare la propria centralità, deve essere in grado di parlare a entrambe le categorie in maniera inclusiva. Interpretando il celebre adagio di George Orwell: “Giornalismo è scrivere quello che gli altri non vogliono che tu scriva, il resto è pubbliche relazioni”. In questo caso, più che qualcosa di non voluto, sarebbe da scrivere qualcosa di sconosciuto. E finiamo sempre con il predicare un ritorno alle origini.
Discussione interessante che tra l’altro pone un paradosso. Proprio la libera rete, con le sue enormi potenzialità di esplorazione dello sconosciuto, ci rende succubi dei nostri “limitati” interessi? Un web sempre più personalizzato e quindi sempre più chiuso? Forse il discorso si ricollega alla libertà stessa della rete (non in senso politico): il rischio che chi produce informazione lo faccia sopratutto per autopromozione, dicendo ai propri destinatari ciò che essi vogliono sentirsi dire e nulla di più.
Esatto! In un mondo “anarchico, chi non ha i mezzi per interpretare cambiamenti e potenzialità diventa succube di chi è più forte. Il risultato è che chi era già forte prima, diventa ancora più forte. Che fare? Questo è un nodo da sciogliere, secondo me.
La soluzione sta nella consapevolezza dell’utente-fruitore credo, ma di certo non tutti hanno le possibilità per esserlo e a volte nemmeno il tempo.