IRPI – Investigative reporting project Italy è un’associazione no profit composta da otto giornalisti italiani, i quali hanno dato vita a questo progetto nel 2012 per promuovere il giornalismo d’inchiesta, offrendo anche un servizio di fixing ai giornalisti stranieri: supporto sul campo da parte di giornalisti autoctoni che conoscono la realtà locale.
Irpi ha lanciato una piattaforma web, Irpileaks, per permettere agli utenti di inoltrare segnalazioni anonime. Un grosso problema delle indagini giornalistiche, infatti, è quello di non riuscire a ottenere informazioni, in molti casi, per via della possibile tracciabilità delle “soffiate”. La garanzia del totale anonimato può essere uno stimolo a venire allo scoperto senza scoprirsi.
Il sistema si basa sul software Globaleaks, progettato dal Centro Studi Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali, ed è utilizzabile grazie al browser Tor. In un momento in cui si discute dell’anonimato in rete come rifugio per i crimini, è utile discutere dell’aspetto primario di questa necessità, la protezione della privacy. Ne abbiamo parlato con Cecilia Anesi e Cecilia Ferrara, presidente e reporter di Irpi.
Permettendo le segnalazioni anonime non c’è il rischio di incappare in un maggior numero di bufale?
«Il sistema Globaleaks, l’utilizzo di Tor e i vari passaggi necessari all’invio di documenti o segnalazioni sono un primo filtro per fare arrivare solo i più ‘motivati’, coloro i quali hanno davvero bisogno di sicurezza informatica per denunciare qualcosa. Questo non ovvia al lavoro successivo del giornalista: controllare in modo incrociato i dati e i documenti che sono stati inviati, ma anche prendere contatti con la fonte e controllarne l’attendibilità, oltre che selezionare quello che secondo noi può avere una valenza di interesse pubblico. Ci arrivano già segnalazioni ‘in chiaro’ ed è sicuramente un lavoro grosso quello di selezionarle, ma dal troppo al nulla assoluto speriamo di trovare il giusto mezzo».
Globaleaks non è quindi uno strumento alternativo, ma un’integrazione ai canali già esistenti.
«È pensato soprattutto per proteggere chi, fino a oggi, ci ha passato informazioni sensibili in chiaro. I leak importanti sono arrivati, ma senza alcuna tutela. È anche un modo per diffondere l’idea che non si deve finire necessariamente come Edward Snowden o Bradley Manning nel raccontare le malefatte e che ci sono opzioni più sicure, ad esempio, per un insider che voglia denunciare (la sicurezza totale non la può offrire nessuno, se la persona non segue la procedura di sicurezza, o è gia sotto controllo, noi non possiamo garantire). C’è la necessità di quella che si chiama accountability in inglese e che si può tradurre in ‘responsabilità’ delle aziende o del pubblico.
Nel frattempo promuoviamo l’utilizzo di sistemi di protezione personale sul web che troppo spesso ci dimentichiamo e diffondiamo un progetto open source come quello creato dai ragazzi del Centro Studi Hermes».
Come vengono trattate le segnalazioni anonime in caso di querela?
«La fonte che vuole rimanere anonima tale deve restare, è un punto fermo del codice deontologico dei giornalisti».
Vi è mai capitato di incontrare possibili “whistleblower” che hanno rinunciato a condividere informazioni per paura di essere rintracciati?
«Il modo per restare anonimi senza GlobaLeaks esiste già, ed è il passaggio brevi manu dei documenti, ma per ora non siamo al corrente di possibili whistleblowers che hanno rinunciato per timore della tracciabilità».
Solitamente chi segnala fa parte del sistema che vuole denunciare? Quali sono i reati più segnalati?
«Nella metà dei casi chi segnala è parte del sistema, e i reati più segnalati riguardano principalmente le attività tipiche del crimine organizzato oppure la corruzione nella pubblica amministrazione».
Secondo voi, qual è l’interesse del pubblico e dei media per le inchieste?
«L’interesse è alto, basti pensare a share e popolarità di programmi televisivi come quelli di Riccardo Iacona e Milena Gabanelli, il problema è che il mercato del giornalismo, come altre cose in Italia, è povero, chiuso e difficilmente accessibile. Le inchieste sono costose e l’interesse delle testate va di pari passo con la responsabilità della classe dirigente, con l’immobilità sociale che ne consegue. Un esempio: i nostri colleghi olandesi del giornale De Groene hanno scoperto, grazie al sistema Globaleaks, che un ministro si appropriava di alcuni fondi pensione cinque anni fa. Il ministro si è dimesso. In Italia la responsabilità sociale è caduta a livelli così bassi, grazie anche alla polarizzazione della politica e dei media, che per far dimettere un ministro ci vuole molto di più».
Come vi state muovendo?
«Come Irpi, siamo producendo una serie di inchieste grosse, all’anglosassone, che trovano spazio – sembrerebbe – solo all’estero. Le testate italiane ci lasciano in attesa per settimane anche perché, come ci ha recentemente detto un collega, “se si rompe un’unghia Berlusconi non esiste più nient’altro”. Forse bisognerebbe ridurre questa corsa alle news di politica interna, c’è molto altro. Ci viene detto che i pezzi devono essere brevi, ma poi si riduce tutto alla cronaca giudiziaria, è lo spazio che va ripensato. Non è detto che un articolo lungo sia noioso, si può lavorare sul contenitore grafico».
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