Il povero Aylan, tre anni, giace riverso sulla spiaggia di Bodrum, Turchia. Con la propria famiglia, Aylan cercava di raggiungere Kos, in Grecia, a bordo di uno dei tanti gommoni che trasportano persone in fuga, che scappano da un Paese che non esiste più e che, eppure, resterà comunque loro. Dunque, quella foto, che mostra un bambino morto, finisce su tutti i giornali, sui social network, sui nostri computer, nei nostri occhi.
Ho provato un brivido, e tuttora continuo a provarlo, nel guardare quella foto. Non riesco a fissarla per più di due secondi, poi devo distogliere lo sguardo in un misto tra orrore e vergogna. Mi sono chiesto che cosa avrei fatto al posto del fotoreporter. Dopotutto, il giornalismo è un mestiere infame, e per raccontare le cose al mondo serve quel minimo di distacco che, agli occhi di chi giornalista non è, ti rende un insensibile, anche se stai semplicemente facendo il tuo lavoro. Quindi, probabilmente, se fossi stato un fotoreporter di esperienza avrei scattato quella foto. Poi mi sono chiesto cosa avrei fatto se fossi stato un direttore di giornale, avrei pubblicato o no? Qui, rispondere, è stato molto più difficile. Se immaginarmi nei panni del fotografo mi rende più cinico e distaccato, immaginarmi nella “macchina” di un giornale mi rende troppo coinvolto per decidere a cuor leggero.
Sono uno di quelli che pensa sia necessario evitare la diffusione di immagini truci e violente, perché credo che l’effetto principale sia quello di anestetizzare il pubblico. Il rischio è che la violenza, vissuta con distacco da un pubblico bombardato da innumerevoli contenuti, diventi intrattenimento. Se la violenza è intrattenimento, allora non c’è violenza, non c’è sensibilità, non c’è comprensione e, in ultimo, non si risolvono i problemi. La risposta, a questo punto, appare semplice. La foto non andava pubblicata.
Invece no. Le cose non stanno così, perché la nostra abitudine a semplificare i ragionamenti, a trovare subito una soluzione, ci sta danneggiando più di quanto riusciamo a renderci conto. Dobbiamo quindi fare un ragionamento complesso, e qui credo che la maggior parte dei lettori stia già faticando a starmi dietro, non perché stia scrivendo cose complicate (di fatto, non ho ancora detto nulla), ma perché questo post sta superando abbondantemente le 20 righe di lunghezza. Spero di avere lettori volenterosi.
Il contesto.
La questione da considerare, prima di discutere della foto, è la situazione in cui si trovano pubblico e giornali. Il pubblico è fortemente anestetizzato, sta perdendo l’abitudine a seguire ragionamenti complessi e punta a informarsi velocemente, non approfonditamente. In questo contesto, probabilmente drogato dalle manie di condivisione che ci hanno instillato i social network, le notizie più condivise sono quelle che fanno più effetto, perché consentono all’utente di comprendere un messaggio (non importa se fedele o meno alla realtà) in pochissimo tempo. Un tempo talmente ridotto da consentire di decidere in un periodo ancora più breve se condividere o meno. Allora è evidente che se la maggioranza degli utenti segue (anche inconsciamente – e sì, è capitato anche a me) questa strategia, allora un contenuto di analisi e approfondimento diventa inefficace ai fini della condivisione, richiede troppo tempo per la sua elaborazione e genera pochissime interazioni. La situazione di partenza del pubblico è questa.
Per quanto riguarda i giornali, la crisi economica si aggiunge al calo costante che i giornali subiscono da diversi anni a questa parte, l’avvento dei social network che hanno ingrandito (penso inconsapevolmente) il problema di cui sopra, ha spinto la maggior parte dei giornali a inseguire il pubblico. Se i lettori-utenti cercano contenuti di facile condivisione, è sempre più frequente che i giornali producano questo genere di contenuti. Ci si sposta sui titoli urlati e colmi di cliché (quella di Aylan diventa ovviamente una “foto shock”) che richiamano schemi di analisi semplici e inadatti all’elaborazione di questo genere di contenuti. Aylan esanime sulla spiaggia non può essere una “foto shock”, è un simbolo (lo spiego meglio dopo) e rappresenta un dramma epocale, non si può ridurre un evento del genere a un gingillo. Notiamo quindi una tendenza generale a spettacolarizzare il dramma, perché questo titilla le emozioni del pubblico e genera condivisioni, quindi traffico, quindi pubblicità, quindi guadagno, quindi sopravvivenza. La questione è che spettacolarizzando il dramma, esso sparisce per fare spazio alle emozioni. La “foto shock” include nel titolo l’emozione del pubblico, che diventa essa stessa notizia (chi può essere scioccato dalla foto se non chi la guarda?), il dramma, di conseguenza, passa in secondo piano. La notizia è che il pubblico si impressiona, non che un bambino è morto mentre scappava dal suo paese in guerra.
Siamo alla netta superiorità dell’emozione sul ragionamento, e credo sia anche il motivo per il quale si dibatte così tanto sull’utilità o inutilità della pubblicazione di questa foto. Spero di aver tracciato in maniera chiara, senza presunzione di esaustività, il quadro generale in cui questa foto va a inserirsi.
Le emozioni sono opinioni.
Ecco che in un contesto di supremazia emotiva, tutto ciò che tocca le emozioni scivola immediatamente nel campo delle opinioni. Del resto, qualunque tipo di emozione è soggettiva, quindi diversa da individuo a individuo (come le opinioni) e, tuttavia, inconfutabile. Non si può negare che una persona provi una certa emozione, di conseguenza esprimere un’opinione basata sulle proprie emozioni è diventato sacrosanto, perché siamo sempre nel periodo in cui l’emozione vince sul ragionamento. Proprio perché l’emozione/opinione non è verificabile per definizione, tutto ciò che suscita emozioni che non condividiamo genera diffidenza. Sarà poi vero che quell’uomo soffre? Sarà poi vero che il ladro si è pentito? E via dicendo.
Poi arriva la foto di Aylan. L’immagine finisce sui giornali e arriva al pubblico, ma entra in un sistema di elaborazione che utilizza schemi inadeguati. Diciamo che se la situazione di partenza fosse diversa, probabilmente la maggioranza delle persone avrebbe interpretato quell’immagine come un simbolo, non come mero fatto di cronaca o peggio provocazione. Il titolo dell’Ansa (“foto shock”) dimostra che in questo periodo storico non siamo preparati a comprendere contenuti di questo tipo, perché si tratta di testi complessi che vanno a richiamare schemi di ragionamento cui non siamo più abituati. Non riusciamo a uscire dal campo delle emozioni. La fotografia suscita inevitabilmente un’emozione, ma viene erroneamente ascritta al genere del sensazionalismo, perché siamo abituati solo a quello. È come descrivere un gusto mai assaggiato utilizzando un gusto noto: l’associazione è sempre inadatta e fuorviante, allontana dal contenuto. Quando usciamo dall’emozione, se ce la facciamo, rimbalziamo all’esatto opposto, cadendo nella superiorità della razionalità sull’emotività. Quindi un bambino morto diventa una questione deontologica, una questione di stile e presentazione del contenuto, una fredda analisi statistica o un richiamo alle leggi comunicative. Non ce la facciamo, non riusciamo a tenerci in equilibrio tra ragione ed emozione, siamo troppo deboli – o troppo anestetizzati – per gestirle entrambe. Facciamo una cosa alla volta, come se fossimo un cavo USB.
Elaborare attraverso le emozioni.
Non solo. La foto di Aylan, dopo essere stata pubblicata dai giornali, finisce nel circuito emotivo che si è costruito intorno al pubblico, e che si esprime maggiormente sui social network. Gli stessi giornali (non tutti, per fortuna) l’hanno utilizzata pensando alle condivisioni, ai like e al traffico. La foto diventa un oggetto utile a raggranellare visite e a vendere copie, si trasforma in un post che serve a creare interazioni e ad aumentare il seguito sui social network. Se in relazione alla pubblicazione sui giornali si parla, generalmente, di una strumentalizzazione, io credo che la vera strumentalizzazione sia avvenuta dopo la pubblicazione. Perché, come ho spiegato in precedenza, la maggior parte di noi ha interpretato l’immagine come una spettacolarizzazione del dolore non perché lo sia sul serio (continuo a pensare che non lo sia, ma parlo esclusivamente della foto, non di eventuali testi annessi) ma perché siamo abituati solo a quello. Il percorso di una notizia si conclude sempre sui social network, dove è l’emozione a vincere (anzi, a stravincere) sul ragionamento, perché sono costruiti appositamente per questo. Evidente come una questione complessa, come l’emigrazione causata dalla guerra, non possa essere adeguatamente elaborata attraverso un approccio emotivo, ma diventa essa stessa emozione, sensazione, impressione. In una parola: opinione. Il fatto sparisce, restano le sensazioni che il fatto provoca, che ovviamente sono diverse da persona a persona. Queste sensazioni, a loro volta, suscitano altre sensazioni, creano distanze tra gli utenti e accendono discussioni sulle sensazioni, che si allontanano sempre più dalla realtà, dal contenuto iniziale.
In questo momento, poi, siamo lontani dal contenuto anche per un altro motivo. Siamo distanti dal dramma perché consideriamo identici tutti i contenuti che ci arrivano dallo stesso schermo. Con il nostro monitor (ma vale anche il display dello smartphone o del tablet) guardiamo film, chattiamo, postiamo sui social network, leggiamo notizie, scriviamo articoli, giochiamo, litighiamo, parliamo in videoconferenza, eccetera. Tutto ha le stesse dimensioni, che sono i confini fisici dello schermo, e apparentemente la stessa importanza. Senza rendercene conto, abbiamo reso superiore il mezzo rispetto al messaggio, questo è un inconsapevole e madornale errore. La foto di Aylan è diversa da tutte le altre e, come scriveva ieri su La Stampa Mario Calabresi, probabilmente farà la storia, perché può rappresentare un intero periodo. Se non siamo capaci di capire che quella foto non c’entra niente con le decapitazioni dell’Isis, non c’entra niente con la spettacolarizzazione, non c’entra niente con il giornalismo scandalistico, allora significa che siamo già stati anestetizzati. Il processo di desensibilizzazione, evidentemente, si è già compiuto, perché è proprio in momenti come questo che dobbiamo dimostrare di non essere pieni di retorica e di “affaticarci” nell’analisi, altrimenti siamo soltanto algoritmi installati su supporti biologici, che rispondono in maniera programmata e precisa a stimoli provenienti da determinate parti del corpo. Incapaci, quindi, di imparare. Eppure dobbiamo ricordarci che ogni finestra, programma, post, bottone, link o immagine deve essere interpretata con schemi appropriati al contenuto. Guardare una fotogallery di gattini non è esattamente come guardare la foto di Aylan.
Educare all’informazione.
La fotografia in questione assume quella funzione “educativa” che i giornali dovrebbero svolgere. Il lavoro giornalistico deve essere più avanti del pubblico, poiché il giornalismo è un servizio, assolve quindi un compito che il pubblico non può o non ha tempo di assolvere. Il povero Aylan diventa il simbolo di quest’epoca, stretta tra insensibilità, razzismo, buonismo, paura e deregolamentazione, e nella propria funzione educativa cerca di stimolare il ragionamento per far comprendere al pubblico che cosa stiamo vivendo. In una parola: informazione. Ebbene, qui si gioca la partita. Siamo ancora in grado di informarci? Siamo ancora in grado di comprendere il significato di un testo? Siamo ancora in grado di dividere i fatti dalle opinioni? Siamo ancora in grado (caratteristica che ci rende umani) di gestire contemporaneamente ragione ed emozione? Queste domande non soltanto vanno rivolte al pubblico, ma anche a chi fa informazione, perché questa foto-simbolo è l’occasione per dimostrare che possiamo andare oltre le nostre emozioni, scollegando questa immagine da tutto il caos già esistente, separandola dal rumore. «Smuovere le coscienze» è un obiettivo fuorviante, che nei fatti non vuol dire nulla. Chi si deve “smuovere” è la politica, che deve intervenire urgentemente – spinta dai giornali, come funziona nelle democrazie – per porre rimedio a questioni di portata continentale. Chi vuole affondare i barconi, difficilmente cambierà idea dopo aver visto la foto di Aylan, perciò penso che condividere la foto sui social network «per far capire ai razzisti che…» sia inutile, anzi alimenta quel perverso circuito emotivo che trasforma i fatti in opinioni e li svuota di contenuti. La foto deve circolare su media autorevoli e professionali, correttamente contestualizzata e contenuta in una “scatola” che la separi in maniera inequivocabile dal rumore, dal caos e dal chiacchiericcio emotivo. Oramai, però, è impossibile fermare questo processo.
Dobbiamo, poi, andare oltre la “foto shock” e capire che il dramma non è distante da noi, ma ne siamo parte, con o senza uno schermo che ci divide da esso. Questo è un momento delicato e spero che le analisi semantiche (inclusa questa) si esauriscano presto, per lasciare spazio alla tragedia vera, che non può essere ignorata né deve essere elaborata seguendo schemi semplici e immediati, con soluzioni approssimative e sbrigative. Né si può ridurre la questione a giudizi deontologici, perché quelli andavano applicati ben prima, a innumerevoli altre situazioni: questa foto è oltre, è un’eccezione che non viene colta perché siamo stati abituati a considerare normali tante vergogne, che non vediamo nemmeno più. Un problema complesso va affrontato in maniera complessa, dobbiamo riabituarci a pensare e ragionare in maniera complessa, solo così possiamo restare umani e dare risposte umane a questioni eccezionali. Abbiamo l’occasione di invertire la tendenza emotivo-consumistica che divora l’informazione e che ogni giorno peggiora, chissà se ne siamo ancora in grado.